Gioielli e artisti
Viviamo nella società del consumo (purtroppo), dove ogni oggetto nasce con il solo scopo di essere consumato, per giungere in breve tempo alla fine del proprio ciclo di vita. E l’arte, si consuma? Assolutamente si, ma il consumo di arte è qualcosa che si guarda bene dall’essere associato al ‘consumo’ per come viene definito nell’ambito delle discipline economiche.
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Nell’arte, tuttavia, il concetto di consumo assume un significato diverso rispetto a quanto solitamente inteso: l’arte ‘consumata’, in realtà non viene esaurita, al contrario. Si trae un arricchimento che non intacca l’entità prodotto perché il valore dell’arte risiede proprio nell’immateriale, nell’emozione che è in grado di generare. Di conseguenza, in uno scenario in cui l’obiettivo è raggiungere un virtuosismo come l’economia circolare o il ciclo chiuso, l’arte ci mostra come l’obiettivo più nobile sia in realtà quello di limitare il ciclo di vita a uno solo, ma infinito poiché mai avverrà la sua fine. Ci sono già degli approcci allineati a queste logiche che sono divenuti paradigma persino nell’industria e che si possono leggere anche nel lavoro degli artisti che si sono avvicinati al gioiello.
Alcuni esempi? Tra gli storici, il più emblematico, sia come approccio alla produzione artistica così come alle logiche applicate al gioiello, è César Baldaccini, meglio conosciuto come César. Famoso per le compressioni di oggetti di uso comune, è forse tra i primi a fare dell’upcycling, di fatto la sua cifra che si può notare in gioielli realizzati con compressioni di tappi di bottiglia o di gioielli di famiglia rovinati. Un altro artista del passato che ha seguito un approccio simile è Arman che, nell’ambito del gioiello, ha deciso di annegare nel metacrilato i frammenti di piccoli oggetti distrutti rappresentanti strumenti musicali. O ancora Mimmo Rotella, che si è cimentato nel gioiello proponendo in scala ridotta le sue tipiche sovrapposizioni dei poster dei film della dolce vita. E poi Antonio Paradiso, con la collana “Aria e Acqua”, realizzata in corallo di Sciacca e oro, in cui il corallo utilizzato faceva in realtà parte di una collana danneggiata che è stata smontata e poi ricostruita per generare nuovo valore. Tra i contemporanei possiamo invece apprezzare alcuni interventi che ragionano includendo il concetto di upcycling nell’ambito dello sviluppo, scegliendo di includere in una parte del lavoro delle componenti che derivano dagli scarti di lavorazione, elementi che andrebbero eventualmente distrutti o rimanipolati per generare un nuovo prodotto.
Ne sono un esempio gli anelli e le collane ‘Iceberg’ di Alessandro Busci, realizzate con pietre che, di fatto, risultano essere lo scarto della lavorazione del taglio, oppure lastre di argento difettose che sarebbero state fuse nuovamente attraverso un macchinoso lavoro di rinobilitazione. Roberta Verteramo invece decide di utilizzare gli scarti della lavorazione del bronzo, piccoli frammenti metallici dall’aspetto grezzo che ben si prestano a rappresentare il concetto di vissuto e che sarebbero impensabili da realizzare ex-novo. Una serie di esempi virtuosi che lasciano al sistema industriale lo spazio per nuovi paradigmi produttivi perché, come già scritto, è insito nell’idea di opera d’arte il fatto che essa non giunga mai alla fine del proprio ciclo di vita. La meravigliosa conclusione che possiamo desumere? L’arte si consuma senza consumarsi. Roberta Verteramo, on the other hand, uses scraps from bronze processing, small metal fragments with a rough appearance that lend themselves well to representing the concept of “distressed,” and that would be unthinkable to make from scratch. A series of virtuous examples that leave the industrial system room for new production paradigms because, as we have written, it is inherent in the idea of a work of art that it never reaches the end of its life cycle. What remarkable conclusion can we infer? Art is consumed without being worn out.